Storia dell’ago, dell’ego e del culo indurito.

da | Mar 18, 2021 | Come sopravvivere alla famiglia | 0 commenti

Avrei chiesto verifiche all’ EMA, all’ ISS. Se avessi potuto avrei chiesto protezione ai no-VAX, ma certe volte non ci sono possibilità di scelta.

Esistono alcuni strani modi di essere suicida: morire di paura o essere convinti di non averne mai

#zezzwoski

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

non sono dimostrabile

Era l’inverno del 1976, la Rai cominciava a trasmettere Sandokan, avevo anche l’album delle figurine, un televisore a colori Brionvega, ma ad un certo punto un medico disse a mia madre: «Signora, facciamo una cura di sei giorni» 

Pensai alla solita disgustosa cucchiaiata di sciroppo col retrogusto di amarene marce, quando il dottore alla velocità di uno stenografo prescrisse una confezione  di penicillina.

«Signora! Per sei giorni, poi ci rivediamo».

Mia madre sorrise soddisfatta, anche perché la prescrizione era per medicine importanti e questo non vanificava il pomeriggio perso e, mai per rinfaccio, le 10.000 lire date al dottore per il caffè.

Tornare a casa senza prescrizioni mediche poteva significare solo due cose. La prima che il dottore non era bravo, la seconda che mia madre era troppo ansiosa e poco adatta a trattare con il medico. Il compromesso era sempre su un pezzo di carta scritto a calligrafia sincopata. Così si ristabiliva l’ordine delle cose: io dovevo avere qualche malattia e lui mi doveva prescrivere qualcosa.
Un ‘malato’ in casa porta gente e cose da raccontare, non era giusto essere sempre in salute.

«Adesso dove andiamo?» chiesi a mia madre mentre chiamava l’ascensore. «Andiamo subito in farmacia a comprare le medicine». In farmacia ci andavo sempre volentieri. Alla destra del balcone, ordinate per colore dal più chiaro al più scuro, c’erano le palline zigulì.

Guardai mia madre mentre porgeva la ricetta al farmacista. Lui mi guardò, lei guardò il dottore, io guardai i due e l’espositore delle caramelle. Tornò con la scatola delle medicine e la poggiò sul bancone.

«Signora le serve una siringa?»
«Siringa?» esclamai terrorizzato. Mia madre fece cenno di fare silenzio.
«No grazie dottore, me ne hanno portata una da Brescia». Come a dire, mica la compro qui in questa farmacia di periferia e per altro del sud.

Cominciai a piangere dalla farmacia fino a casa. Un pianto disperato, di quei pianti che nei bambini generano gli effetti di apnea e che si risolvono con violenti colpi per riattivare l’appartato respiratorio, senza curarsi dei traumi cranici. L’iniezione era programmata per le ore 20:00 quando rientrava mio padre; qualcuno doveva amorevolmente bloccarmi braccia e gambe. Poi avevamo pure la siringa nuova portata da Brescia, la serata sembrava la finale di canzonissima.

La siringa era di vetro ed era pesante, parcheggiata in un contenitore metallico a forma di cofanetto. Lo stantuffo era separato dal cilindro, l’ago in ottone e acciaio aveva all’interno un filamento per impedire l’otturazione nei periodi di inattività. Mia madre riempiva il cofanetto di acqua che fungeva anche da sterilizzatore una volta messo sul gas. Bolliva per dieci minuti. Poi scolava l’acqua, lasciava raffreddare i tre componenti e ricomponeva lo strumento di tortura.

Pescava ripetutamente l’aria con lo stantuffo, andando su e giù per stappare l’ago, come il pedale dell’acceleratore di una macchina fredda appena accesa. L’ago era uguale per tutti i culi, da quello di mio nonno al mio, compresi i vicini di casa. Senza paura di trasmettere malattie. Ricordo il cofanetto bollire accanto alla pentola con le rape. Mia madre era brava sia a pulire la verdura che a fare le iniezioni e per questo era richiestissima.

Alle 20:00 precise cominciarono le tattiche per acchiapparmi. Sfuggivo come un indemoniato, mio padre cominciò con una serie vergognose minacce e ricatti. La sigla del telegiornale faceva da angoscioso sottofondo musicale. Alla fine mi afferrò e mi bloccò braccia e gambe.

«Ecco abbiamo fatto» disse mia madre quando ancora era nell’altra stanza. Io piangevo sia nella prospettiva dell’imminente puntura che per l’evidente presa per il culo. Arrivò correndo con lo strumento, strofinò con un batuffolo imbevuto di alcool denaturato, inclinò la siringa e…

«non indurire che si spezza l’ago dentro»

L’ipotesi dell’ ago rotto infilzato nella zona del gluteo minimo mi gettava nel panico. Io continuavo a piangere, mio padre continuava con la sua confusa partecipazione. Da una parte minacciava con punizioni, dall’altra mi corrompeva con permessi trasgressivi. «sei fai il bravo puoi vedere Sandokan» del quale in quel momento non me ne fregava nulla.

Mi ero addormentato sul divano dopo il lavoro. La televisione era su Italia 1 e trasmettevano il telegiornale, sul camino la luce dell’elettroinsetticida Sandokan cattura insetti, ogni tanto festeggiava il passaggio di qualche mosca. Mia madre mi svegliò chiedendomi un aiuto; mio nipote doveva fare un’iniezione. Entrai nella stanza e mi stesi nel letto mentre lui dormiva. Lo tirai verso di me, lo abbracciai bloccando gambe e braccia. Era ancora addormentato e pensai, forse meglio così, si evita l’angoscia della preparazione…

Partì un pianto disperato e lui che gridava aiuto.

«sei fai il bravo dopo vedi Dragon Ball» dissi.

poi sentii mia madre dire:

«non indurire che si spezza l’ago dentro»